cimitero di Cracovia

Il lutto è una condizione molto particolare e praticamente inevitabile nella vita umana, e nel corso della civiltà ci siamo inventati  tanti modi per affrontarlo, dargli un posto, regolamentarlo. Alcuni sono estremamente personali, molti regolamentati dalla consuetudine. Parliamone.

Quello che mi sono inventata io quando mio padre morì improvvisamente di ictus a 59 anni è stato di studiarmelo. All’epoca mi occupavo di linguistica applicata e di pragmatica, ovvero come la gente usa la propria lingua, e cominciai a notare che nelle condoglianze c’erano delle cosette interessanti, per cui iniziai a studiarmi l’atto linguistico delle condoglianze (cosa sia un atto linguistico e la sua teoria, se interessa, leggetevelo qui). Quell’articolo alla fine non l’ho mai pubblicato, ma nel periodo del lutto mi sono studiata la qualunque a proposito di lutto e rituali funebri e due cose mi avevano colpito in maniera particolare.

Il lutto come tabù

Una era una citazione da un articolo che sosteneva che nella civiltà postmoderna il lutto aveva preso come tabù il posto che una volta era occupato dal sesso. Esiste, si pratica ma non se ne parla in pubblico. Non è bon-ton. Dal 1995 ad oggi posso solo constatare quanto fosse ed è vero e quanto influenzi il secondo punto qui di seguito.

Per esempio non so voi, ma io da piccola vivevo in un paesino e quando moriva qualcuno si andava a casa alla veglia. Entro i 4 anni ho visto un sacco di morti composti sul proprio letto, con i ceri ai 4 angoli, e i parenti stretti sul divano accanto a cui i nuovi arrivati si andavano a sedere. Impressionante? Neanche un po’. La prima volta che mia nonna mi ci ha portata, mi ha detto chiaramente: “Vedi? è un po’ come se stesse dormendo”. La trovo tuttora una frase bellissima che mi ha introdotta gradualmente, attraverso le veglie di gente che in fondo conoscevo poco o niente, a fornirmi di strumenti adatti a superare meglio le situazioni in cui morivano invece persone che conoscevo e a cui ero affezionata.

E adesso? Quanti bambini conosciamo che hanno partecipato a un funerale o a una veglia, che hanno visto un morto? Per i miei figli l’unica occasione è stata la morte della bisnonna, abbiamo scelto senza neanche dovercelo dire per una veglia e funerale di vecchio stampo. La zia ha portato dei pennarelli colorati invitando tutti noi a lasciare un ultimo messaggio sulla bara e loro hanno fatto dei disegni che abbiamo fotografato perché se li ricordassero.

Certo, gli è dispiaciuto, la bisnonna la conoscevano bene e la vedevano spesso. Per alcuni mesi quando avevano momenti di fragilità per qualsiasi motivo, venivano da noi sussurrando: “Mi manca tanto Oma Ma”. Ed era la frase che riassumeva tutti i dispiaceri. Tutto sommato siamo molto grati per aver avuto tutti insieme questo bel momento di addio.

Rendiamoci conto che anche se nei paesi alcune consuetudini sono rimaste, in città ce le scordiamo proprio. È  la modernità, bellezza.  Magari però possiamo andare a fare il corso di mindfulness o ricorrere allo psicoprofessional di propria scelta.

La paura del lutto altrui

E purtroppo quando cominciano a cambiare le consuetudini consolatorie tocca anche rendersi conto che se viviamo un lutto possiamo fare paura agli altri, che si sentono inadeguati a starci accanto e scappano. A me con mia enorme vergogna successe  quando a due vicini che conoscevo anni prima morì un bambino di due anni. Tutta la scuola stravolta, tutti al funerale, ma io dopo il funerale davvero non ce la facevo a trovare la forza di andarli a trovare, chiedere se potevo dare una mano. Era troppo terribile, troppo vicino, mi saltò fuori il timore panico e superstizioso che nella loro situazione io non ce l’avrei fatta. Pochi mesi dopo decisero di trasferirsi in Australia. Non ci siamo più visti. Può succedere. Anche le malattie brutte rischiano di creare una reazione del genere. È umano, è triste ,è durissima. Ma succede.

Letterina di Natale lasciata vicino alla tomba di famiglia da un bambino

I rituali del lutto

Perdendoci questa consuetudine con la morte e con i morti, in città soprattutto, temo che ci stiamo perdendo anche tanti rituali che prima erano parte del quotidiano. Io cerco di portarmeli dietro e quando andai, trafelata e di corsa, al funerale della suocera di una mia carissima amica, una signora energica e meravigliosa che nel giro di due settimane si è ammalata, ha sentito una orribile condanna a morte e ha scelto di fare eutanasia per non aspettare di morire soffocata ma salutare tutti con dignità, ecco, sapevo che stavo andando da una famiglia già provata dal funerale due settimane prima del consuocero, con i parenti arrivati di corsa dall’America, un figlio molto amato ma con un rapporto molto combattuto per tutta la vita con una madre molto simile a lui. Alla fine della cerimonia mi metto in fila come tutti per andare dai famigliari schierati per fargli le condoglianze, arrivo dalla mia amica e le faccio: “Dammi le chiavi della macchina che mi si sta congelando un’ascella, ho una lasagna surgelata per voi in borsa, te la metto lì”. Risata clamorosa e tanti ringraziamenti successivi per le lasagne salvifiche quando la povera donna si è ritrovata in casa una ventina di parenti stretti dolenti e affamati.

Perché da noi nei paesi a farti mangiare ci pensano i vicini, a volte è proprio un rito codificato, si chiama il “consolo”. A volte si fa e basta. Quindi quando vai alla veglia, prima prendi posto sul divano con i famigliari stretti e ti fai raccontare come è successo. Questo ripetere i dettagli 50 volte subito dopo la morte sembra una scocciatura, ma è importantissimo, parlo per esperienza personale, nel portare all’esterno il dolore, lo shock, i momenti brutti. Ne parli e in qualche modo sembra più leggero, ognuno che ti ascolta si fa carico di un pezzetto di peso.

Poi si passa in cucina dove c’e perennemente qualcuno che fa caffè e ti mette in mano la tazzina, un ciambellone, un panino, spesso ci sono dei buffet continuamente riforniti appunto dai vicini e dai parenti. I dolenti vanno sostenuti materialmente e si creano spontaneamente catene di aiuto, chi ti accompagna, chi ti sistema casa, chi ti fa la spesa o cucina, chi ti porta a spasso il cane. È un’organizzazione che si gestisce da sola. Torna molto anche nelle frasi di condoglianza: “Qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno”, “Fammi sapere se posso fare qualcosa” si sentono continuamente.

Poi ci si confronta con gli altri amici e conoscenti, si fa salotto, si dicono banalità, si ricorda il morto e le cose belle che si sono fatte insieme, o la fatica che ha fatto nella vita. Si fa il consuntivo affettivo. Si piange e si ride. Si può cadere nel trip dello humor nero. (No, ma le risate che ci siamo fatti alla fine del funerale di mio padre con quei cugini più amati, veramente, una consolazione).

A volte sono funerali estremamente dolorosi e c’è sempre qualcuno tra le cui braccia buttarsi per piangere. Fateli piangere, non li consolate, o meglio, consolateli evitando di farli smettere di piangere. Io al funerale di mio padre lo feci improvvisamente con zio Piero, il cugino più giovane di papà, che per puro caso era stato l’ultimo ad uscire dalla chiesa, dopo la bara. non l’ ho più pianto per almeno tre anni, dopo. Ci litigavo in sogno, magari, ma piangere no. E mi incazzavo con mia madre che aveva la stessa reazione, volevo che almeno lei piangesse per tirar fuori tutto, senza rendermi conto di me. Capita anche questo.

La mattina stessa uno degli amici di mio padre lo aveva fatto con me ed era stato strano dover essere io a consolare tanti adulti che ancora non si facevano capaci. La mia amica Paola lo fece con me dietro casa sua, quando a sedici anni ci ritrovammo entrambe confrontate con qualcosa di più grande di noi. Sua madre era appena morta malamente di cancro. “Lei non voleva morire”, mi ripeteva singhiozzando forte. In quei casi abbracci, stai vicino, dici qualcosa di inutile e incoerente, poi il dolente si raddrizza, si asciuga le lacrime e dice: “Rientriamo”.

Se vi ritrovate in qualsiasi dei due ruoli, ci sta, niente panico, tutto quello che si dice e si fa ai funerali passa in camera caritatis e lascia un senso di gratitudine. Specialmente da noi nei paesi al sud, puoi urlare, rotolarti per terra, strapparti i capelli, va tutto bene. Nessuno ti giudicherà per questo. La fregatura, quindi è quando ci evolviamo e si rientra nel discorso del tabù, rischi ti diano un Valium e ti mettano a cuccia. Un gran peccato. E la fregatura è anche se per il sentire comune ci metti troppo a riprenderti. Il lutto, si, il momento brutto, si, ma poi la vita continua. E se la tua non continua sei scomoda. Ricordiamoci di avere pazienza con i ritmi degli altri.

Il lutto è un luogo, ci si entra e se ne esce (e banalità varie ma vere)

L’altro punto interessante in cui sono inciampata mentre facevo le mie ricerche sui rituali funebri è stato il concetto del lutto come un luogo da abitare. Un luogo dell’anima, sicuramente, ma che spesso viene ritualizzato proprio in luoghi fisici. Per me uno di questi luoghi fisici sono i cimiteri, e devo dire che mi turba, delle persone care che ho, il fatto che scelgano di farsi cremare e spargere le ceneri, senza che resti un luogo pubblico deputato a ricordarne il passaggio in questa vita e nelle vite di chi li ha conosciuti o ne discende. Ma questa in fondo è questione culturale e di come persone diverse e comunità diverse si arredino ognuna a modo suo questo “luogo”.

I miei suoceri e i nonni di mio marito hanno scelto cremazione e spargere le ceneri. A me dispiace. Io e maschio alfa siamo dei grandi visitatori di cimiteri, una lapide ci mette un attimo a raccontarti una vita. O almeno a suggerirla. Spero che i miei suoceri ci ripensino, almeno per lo spargimento, e mi concedano una lapide su cui portare un fiorellino. Mia madre per esempio quando va al cimitero mi manda le foto, come se fosse una riunione di famiglia. Lo è. Io delle volte mi sorprendo a dare una pacca di saluto alla lapide di mio padre quando me ne vado. Eh sono fatta così, ci vuole pazienza.

Poi oltre al luogo fisico c’è il cambiamento radicale nel modo in cui viviamo la nostra quotidianità. Pensate a quanti è capitato, per mesi, anni, dopo la scomparsa di qualcuno di pensare: “Ah, poi devo dirgli/chiedergli questa cosa”> E poi ti fermi e ti rendi conto che questo pensiero spontaneo non esiste più, che proprio non glielo puoi più dire perché non c’è. E quando ti dicono che il tempo è l’unica cura, quello che si sta dicendo è che ci dobbiamo riarredare una quotidianità senza la presenza fisica di questa persona che ci manca. Ridarci tempi e ritmi diversi. (Che poi è una banalità, ma quanto è vera, che dobbiamo darci tempo).

Quando morì mio padre e mia madre cominciò a fare ordine tra le sue cose, in parte per motivi proprio pratici di bottega, l’albergo doveva andare avanti e lei doveva recuperare le carte, i conti, l’amministrazione di cui si occupava lui, mia nonna che di suo aveva perso un marito e due figli e un mucchio di sorelle mi prese da parte e mi disse: “Diglielo tu a tua madre di non avere fretta di spostare e buttare tutto adesso, perché è normale volerlo fare, ma poi ti penti”. (Ed è una banalità anche questa, ma quanto vera). Mia madre buttava e io recuperavo e nascondevo. Ci ho messo 15 anni a buttare una camicia di flanella di mio padre che mi mettevo quando mi ammalavo. Ma mi serviva (la sua canottiera fatta a mano in lana di pecora ce l’ ho ancora, hai visto mai. E due camicette di zia Filomena).

Insomma tutto quello che mi andavo leggendo sui rituali funebri all’epoca mi portava anche a un tema comune: quello del limbo in cui si ritrovano temporaneamente le persone che vivono un lutto. È come se fossero a metà tra il mondo dei vivi e quello dei morti, e che debbano in qualche modo “scegliere” da che parte vogliono continuare. E questo lo vediamo in tante abitudini di conforto, in tante sospensioni alle norme sociali: i vicini che ti portano da mangiare perché tu non cucini, cucinare è attività da vivi. Il fatto che nelle case colpite si spengano fuochi, non si guardi la TV per qualche giorno (le mie cuginette che deploravano le puntate di CandyCandy che si sarebbero perse in quei giorni, che i bambini lo vedono a modo loro il lutto).

E su quello tocca tenere conto di tante dinamiche famigliari, di tanti nodi che vengono al pettine proprio quando muore una persona fondamentale in famiglia. Certe volte le emozioni sono talmente tante che finisce a schifìo.

Ma si perdono i ruoli. Se ti muore un genitore smetti di essere figlio, in qualche modo. Un coniuge, aiuto. Un figlio, non ne parliamo, è la perdita che ti lascia senza ruolo. Non sei orfano. Non sei vedovo. Sei a metà ma non c’è un nome per questo.

Per questo è fondamentale, se ce l’abbiamo, poter avere accanto una persona, un affetto, un motivo per alzarsi la mattina che ti accompagnino in questo limbo, fosse pure il lavoro o il cane da portare a spasso, i bambini a scuola. Qualcosa che stia lì per tirartene fuori. Forse dico l’ennesima banalità: solo se abbiamo la certezza di questa via di uscita ci possiamo abbandonare al nostro lutto. Ci concentriamo sulla nostra guarigione sapendo che non siamo da soli.

Forse questa è la cosa più importante di tutte.

Quindi riflettiamoci, non spaventiamoci, facciamoci i conti con questo fatto della vita, non abbiamo paura di parlarne e di trovare i modi e i tempi che servono a noi per uscirne. Sono totalmente personali. E portiamo quindi pazienza se stiamo accanto a una persona amata che ha i suoi modi, che potranno non essere i nostri. Ci sarà sempre qualcuno vicino a darci coraggio, coltiviamocele queste persone, che ci servono per uscirne fuori.

 

9 comments

  1. Ciao,
    Il lutto e’ materia di cui mio malgrado sono esperto, ammesso che esiste come specializzazione.
    Invio il mio CV: ho perso il padre quando ero decenne, pochi anni dopo (quattro) ho perso la madre e mio fratellino nato 20 giorni dopo la perdita di nostro padre. Rimanemmo in due fratelli e nel 2010 ho perso anche lui.
    Posso ritenermi esperto?
    Magari qualcuno mi puo’ assumere per soffrire al suo posto.
    Il lutto.
    Per me e’ un mostro da affrontare con la spada e lo scudo, un gigante che ti assorbe le energie vitali. E no! Non mostrate MAI i genitori morti ai bambini. Per me fu devastante vedere mia mamma e mio fratellino nella bara. Ora, mentre scrivo rivivo quelle emozioni e faccio molta fatica a scrivere, ma come il soldato corrazzato devo lottarci ogni volta che si presenta. Devo mollare fendenti e parare colpi.
    Abbiate pazienza (voi che leggete) a volte devo scendere in arena e lottare volontariamente per dimostrare a me stesso quanto sono forte. Forte? No!
    Sono fragile come un biscottino oswego (me li dava sempre mia mamma), si rompevano facilmente, ma inzuppati nel latte-cioccolato diventavano morbidoni.
    Sono fragile e lo so e forse questa consapevolezza mi ha dato la forza. So che se avessi ceduto al dolore sarei morto. Di dolore.
    Il lutto.
    C’e’ un rapporto di valore tra chi lascia e chi resta. Dipende do chi, come e quando se n’e’ andato.
    Non tutti i lutti sono uguali. Non esiste un metodo che vale per tutti, tranne per quelli che se ne sono andati al momento piu o meno adatto.
    Un rapporto di valore scrivevo: mio fratellino non doveva lasciarmi. Non so spiegarlo, ma della sua perdita mi e’ rimasta una ferita sanguinante, come lava dal vulcano, come l’acuq del fiume. Il dolore scorre dentro di me. Non sono mai riuscito a arginare, tamponare chiudere la ferita.
    Per me lui era figlio e fratello. L’ ho svezzato io mentre mia madre cercava di superare il lutto. Gli ho cambiato i pannolini, lavato il ciuccio quando gli cadeva per terra. Gli facevo il bagnetto e gli passavo il borotalco. Ero undicenne.
    Ora mi devo fermare scusatemi….volevo scrivere tuttaltro. Sorry.
    LBK.

    1. Stavo leggendo il Suo commento e ho pensato che esistono persone che hanno avuto un lutto, non solo io. Mi devo fare la forza, sono una mamma, una zia.

  2. Grazie per questo post utile e consolatorio. Che dici di quelle persone che non superano il lutto, anche dopo dieci anni? A me ricordano quelle donne indiane che quando muore il Marito vengono mandate a largo con una piroga in incendiata; praticamente muoino anche loro, vivono per il morto incuranti dei vivi.

    1. e magari per qualcuno è davvero così, una persona può essere così importante nella tua vita che senza tutto ti sembra aver perso di senso. Come facciamo a entrare nel cuore di tutte le persone? Non lo so e mi sembra difficile, ma a volte ci tocca

  3. ora ho solo il tempo di piangere un po’, ma non di organizzare i pensieri per scrivere checché di sensato.
    i miei lutti un po’ forse li hai letti da me e li sai. Lutti anche di luoghi, che pero’ é un po’ blasfemo da dire.
    (Ora mi sto immaginando, se quel giorno che ripassero’ da Amsterdam e prendero’ il coraggio di scriverti una mail prima per farti un saluto, mi sto immaginando un pianto tra le tue braccia. )

    Pero’, intanto, perché hai scritto questo post?

  4. Aggiungerei che il lutto è un viaggio, non nel senso metaforico, un po’ scontato, ma proprio nel senso che quando vivi lontano e ricevi la chiamata, quella lì, non puoi fare altro che partire. Da me, che pure non vengo da un paesino, si fa ancora la veglia e tutto il resto. hai ragione: aiuta a gestire il lutto e il senso di vuoto. Pur essendo io pudica con le emozioni, sono grata per questa usanza, per l’occasione di condivisione che si crea come fosse un ultimo regalo da parte del defunto.
    P.s. di recente ho visto Coco, a proposito di culture diverse…

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