Vi avverto che questo è lunghetto ma ne vale tanto la pena. Oppure guardate le figure, che ne ho di migliori se riuscissi a visualizzarle, ma le aggiungerò in seguito

Allora, uno dice: vado ad Offida al carnevale del Bove Finto. Ma Offida dove sta? “Dopo l’ospedale prendi il bivio per Acquaviva Picena” mi dice il Figurt, che è colui che mi ci ha fatto venire. Ed è verissimo, tornante tornante ci arrivo pure.

Arrivata incrocio un figuro biancorosso-vestito mi fa cenno che il parcheggio è pieno. Proseguo, dopo il distributore Api mi imbuco per una discesa e seguo la massa biancorossa. Per l’85% offidani doc, il resto imboscati, da fuori mi dice il Figurt in borghese. Lui che fino allo scorso anno si fingeva interno anche lui, quest’anno è arrivato all’ultimo momento, con morto in volo in aereo e atterraggio di emergenza a Basilea per scaricare la salma (certa gente ha una vita interessante a prescindere), e arriva a casa solo per scoprire che la sua guazzarò era ancora imbrattata di vino cotto dall’anno precedente per cui ha rinunciato al costume.

La guazzarò, la tunica contro la guazza dei campi indossata dai contadini, è il costume ufficiale del carnevale, oltre a un altro tipo di abbigliamento (che se windows riconoscesse il dischetto di foto che ho messo nel drive ve le potrei pure pubblicare, ma Technology fails me come al solito).
 
I biancorosso-vestiti indossano praticamente le mutandone a metà polpaccio con le trine di Holly Hobbie. Sopra, camicina in tinta, berretto e calze rosse, fiocchetti rossi e un gilè nero con la testa del bove applicata in tutte le salse.

Essendo poi che Offida è anche la patria del merletto a tombolo la maggior parte dei bovi è stato creato da pazienti nonne ai fuselli, visto che le nonne a Offida pare abbiamo come compito fondamentale nella vita quello di creare e manutengere gli abbigliamenti rituali della prole e nipotame.

Figurt mi fa arrivare in fondo a una discesa fuori dalle mura, verso un garage in cui è conservato il bove. Che non crediate che abbia fatto le cose a metà, io ho assistito direttamente all’uscita, consacrazione, processione, corsa, uccisione rituale e sconsacrazione del bove che da oggetto rituale è poi ritornato l’ involucro di cartapesta che era e che resterà fino al prossimo anno.

Il Bove di cartapesta viene tirato giù da un rimorchio tra ali di folla festante. Ogni anno una confraternita a turno se ne occupa, compreso il rimessaggio in luogo segreto.

La confraternita ha anche come compito quello di impedire che il Bove venga toccato da mani profane, attività che va accompagnata da spintoni e cordoni umani che per capirlo bisogna trovarcisi in mezzo con una Canon da proteggere sotto l’ascella sinistra. (Maschio alfa, suo ufficiale proprietario, ha minacciato cose indescrivibili se gliela danneggio, non come quest’estate che si è fidato a darmela per fare un paio di foto in spiaggia ai bambini e da allora brontola che ci ha ritrovato dei granelli di sabbia. Mi sa che ho sbagliato a scegliere per la separazione dei beni quando ci siamo sposati).

“Qui è meglio non avvicinarsi troppo” mi avverte quel fine antropologo del Figurt “perché è la parte di festa tutta loro e si seccano se si impiccia gente da fuori”. Che i rituali tribali sono a numero chiuso per definizione.

E a giudicare dai bottiglioni da un litro e mezzo già ampiamente smezzati che la gente porta al collo, e la mia esperienza di gruppi ubriachi alle feste di paese, gli dò santamente ragione. Che il vino cotto, o vino ciu ciu come lo reclamizzava un cartello nella pizzeria in piazza, fa parte del rito. A quelli di fuori danno ormai del vino comprato in giro, quello di produzione propria è riservato agli insider.

Poi è cominciata la passatella di riscaldamento. Due persone si infilano la sagoma del Bove in testa, e ciechi e sbronzi cominciano a correre su e giù, accompagnati dai membri della confraternita che li fanno svoltare con grandi curve proprio mentre stanno per schiantarsi contro qualcosa o buttarsi nel vuoto. Tutto è assolutamente privo di grandi controlli, se non quello dei conducenti sbronzi, che peraltro hanno iniziato a bere il 17 gennaio, giornata ufficiale di apertura del carnevale.

Il che mi fa capire perché Alberto – in arte Figurt – mi ha assolutamente sconsigliato di portare i bambini. A ogni giro movimenti scomposti tra la folla creano ondate di vuoto per evitare di farsi incornare dalla faccia ottusamente vuota del Bove, cieco e crudele come un dio indifferente. (Che le corna sono vere e fanno male se ti ci infilzi).

“O, o, o, o, o, o, o” incita la folla la corsa del Bove. Dopo ogni giro sollevano la carcassa ed altri due confrati si infilano sotto e ricominciano la loro corsa orba.

“Quando cominciano i riti orgiastici?” si informa l’amico di Alberto, anche lui qui per la prima volta. Domanda che cade nel vuoto.

Correndo correndo si ritorna verso le mura della città e la processione si avvia per una viuzza stretta e serpeggiante, dal nome bellissimo: via del Serpente Aureo, che suggerisce forse le origini del nome di Offida, peraltro controverse: o deriva da oppidum, oppure da ophis, per l’appunto serpente.

Con il sole tutto in faccia seguiamo questo mucchio di gente bianca e rossa per la stradina, che infine sfocia in una piazza irregolare, con da un lato un palazzo con un bellissimo portico sormontato da una loggia ad archetti. E da lì sopra la webcam spara nel mondo le immagini della piazza, mentre un microfono avverte la folla dei movimenti del Bove.

Dopo un tot di corse il Bove sparisce di nuovo per le stradine, mentre io continuo ad esplorare la folla. I bagni chimici sono una trovata geniale davanti ai quali si allungano le code.

Due ragazzi arrivano di corsa trascinandone un terzo tutto afflosciato. ” Fate passare, fate passare, si sente male” (ma no? Cominciavo a preoccuparmi).

“Ma se deve vomitare, può farlo anche fuori,” protestano le donzelle in attesa, che noi donzelle e le vie idrauliche, si sa.
“No, deve pisciare” chiarisce il monatto. E non è l’unico.

Il pomeriggio passa così. Con il Bove che entra ed esce dalla piazza, gruppi di gente carica di fiasche e fiaschette che offre da bere in giro, le forze dell’ordine che tengono la situazione sotto controllo in divisa di gala, a ogni angolo della piazza un’ambulanza della croce verde circondata da volontari in gilè  fluorescente.

Presa dal mio ruolo di osservatore esterno e non coinvolto faccio foto e comincio a desiderare la morte rituale, che ho i piedi freddi e vorrei rientrare per cena, visto che ho abbandonato i bambini a Maria Laura e mi sento in colpa di approfittarne così. Ma deve almeno far notte.

Alberto riemerge esultante: “Sono riuscito a toccarlo, adesso devo toccargli la coda e possibilmente strappargliela, anche se dopo mi linciano” che i riti sono cose serie e non pensi l’estraneo di passaggio che sia tutto un gioco.

Come mi spiega un ragazzo con cui abbiamo attaccato discorso:
“La sensazione che provi quando corri tutto il giorno in questa atmosfera con i tuoi amici, e bevi di continuo e poi la sera continui a bere, è una cosa a cui non posso rinunciare, è un modo unico di stare insieme agli altri”.

Che il senso tribale, mica c’è così da solo, bisogna costruirlo. ” Voglio venire a vivere qui” sospira Sara.

Io non lo so davvero se fa bene a dei ragazzini crescere in un’atmosfera del genere. Su un paracarro ce ne sta una seduta, immobile, i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa tra le mani, piegata in tre. Tutti le fanno una foto, lei non si accorge di niente. Ripasso un’ora dopo sta sempre lì, non si è mossa di un millimetro. Ma ha il costume e penso che semmai qui la conosceranno e sapranno se ha bisogno di essere riconsegnata a casa o meno.

Decido che il miglior posto per tentare una foto da vicino al Bove è se mi metto con la schiena contro la quarta colonna del portico, quella dove alla fine si compirà la macellazione rituale. Ci devo aver azzeccato perché piano piano l’azione comincia a dirigersi da queste parti.

Aren’t you afraid?”, mi fa un ragazzetto scozzese dopo che io, senza spostarmi con la schiena dalla colonna della loggia, riesco a scattare un paio di primi piani al Bove che mi svolta a mezzo metrodidistanza. Mi racconta di essere arrivato fin qui tramite la sua ragazza locale.

Io più che altro conto sul fatto che gli accompagnatori non vogliano far schiantare il prezioso Bove contro i mattoni e che lo faranno girare in tempo ogni volta. E altrimenti il mio piano B è che cercherò di cadere in ginocchio per evitare almeno le corna, se proprio mi viene a sbattere contro.

Continuo ad avere i piedi freddi e forse sono l’unica persona completamente a secco di alcol di tutta la piazza. Che se c’è una cosa che il mio passato di astemia e il corso da sommelier mi hanno insegnato, è che non c’è gusto a bere vino mediocre.

Intanto sul selciato ho trovato un tastevin dell’AIS abbandonato, e so anche chi lo ha perso, l’ho fotografato poco fa, ma non lo ritrovo nella folla e mi tengo il trofeo per ricordo.

Adesso è arrivato quel crepuscolo che mi piace così tanto e su cui mi sono già dilungata in precedenza, quindi che ve lo dico a fare? Il Bove non corre più a casaccio, ma viene guidato in circoli ovali intorno alla piazza nella sua ultima corsa, incitato dal gran ciambellano al microfono.

” Vai, vai, bravo, ce la fai”, mentre cambia anche il grido della folla che incita, si vede che cominciano ad avere i piedi freddi anche loro.

“Eh, eh, eh, eh, eh, eh”.

Vedo al centro della piazza e del bailamme un incosciente con un bambino piccolo in costume sulle spalle, ma se sei del giro sai anche cosa è pericoloso e cosa non lo è. Spero. Dov’è il giudice tutelare quando ce ne sarebbe bisogno?

Il Figurt riemerge da una corsa dietro il bove e mi annuncia euforico:
“L’ho toccato, l’ ho toccato due volte e poi gli ho toccato le corna e anche un pezzetto di coda”.
Le palle no? vorrei chiedergli, che mi sembrerebbe anche una cosa adatta, ma mi faccio i fatti miei.

La colonna della loggia sulla quale si consumerà la morte rituale del Bove e che non ho mollato nell’ultima ora e mezza viene difesa adesso da un cordone di persone, uomini soprattutto, ma anche donne, che si tengono stretti insieme e respingono chi voglia avvicinarsi al corridoio verso cui verrà condotto il Bove.

E il Bove si avvicina e mi ritrovo presa in mezzo tra il cordone tra noi e il Bove che mi respinge e la folla che mi preme dietro tutti con il braccio allungato per toccare almeno una volta la bestia taumaturgica e io, dimentica della Canon, del maschio alfa, del mio ruolo di osservatrice esterna, allungo anch’io il braccio, poi vengo tirata indietro da un movimento della folla e in quel momento mi accorgo che anch’io VOGLIO toccare il Bove, mi tiro di lato per rimettere nello zaino la Canon che tanto si sono definitivamente scaricate le batterie e ributtarmi in mezzo, ma ormai è passata, la folla grida, le grancasse suonano e poi, finito.

Entra la banda,  il Bove viene sollevato, riportato in processione per le vie intorno alla piazza su cui rientriamo, nel processo opposto e speculare a quello della sua consacrazione, una processione che lo ritrasforma in quell’oggetto inanimato che era e che per un pomeriggio all’anno non è più. Un tacchino sul vassoio, praticamente.

La processione passa tra porte e finestre aperte, davanti alla casa di riposo dal portone spalancato, da cui un vecchio su sedia a rotelle sta lì con un sorriso tremolante da orecchia a orecchia a guardare il simulacro che rientra. Mi fa tenerezza, chissà quante volte c’è stato anche lui a correre sotto al Bove senza vedere nulla intorno a sé.

Dall’alto di una serie di terrazze sulla via del Serpente Aureo, i terrazzani, i latifondisti che non partecipano ma assistono ai riti del popolo e del Bove, guardano sfilare la folla festante.

Che certe volte capisci che il feudalesimo in questo nostro paese non è mai finito e che la TV è diventato il vitello d’oro a cui ci rivolgiamo e che non ci ascolta. E allora una volta l’ anno il sovvertimento carnevalesco del Bove finto continua ad avere un gran senso. Per chi riesce a farne parte.

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