“Manca il lutto” ha detto giustamente Claudio su Facebook a proposito dello straniamento tra chi sta vivendo in diretta il terremoto del centro Italia di questi giorni, e chi lo vive in differita. E ha perfettamente ragione, per cui fatemi mettere un po’ d’ordine tra le riflessioni sparse intorno ai miei terremoti di Internet.
“Il primo terremoto di Internet” di Massimo Giuliani, aquilano, terapeuta, orfano del terremoto come me, fu questo tentativo (che speravamo salvifico, ma cosa mai può essere salvifico quando devi fare i conti con la perdita del tuo passato e del tuo futuro) di storia della storia del terremoto, un racconto corale per recuperare persone e coordinate sperse in mezzo alla polvere. Un tentativo allora ancora più urgente per la politicizzazione e le narrazioni tossiche che si stavano creando (e tuttora vanno avanti) su quello che è stato il post-terremoto aquilano.
Sempre nell’ ottica della politicizzazione di questo, abbiamo visto alcuni tentativi di militarizzazione del territorio anche per il successivo terremoto in Emilia, ma per allora, anche se perennemente sfollati, sotto l’onda lunga di processi vessatori (processane uno per educarne mille, ha funzionato benissimo) gli aquilani e il (minimo, per carità) pubblico di “esterni” che ormai avevano iniziato a seguire i loro sforzi di contronarrazione dal basso e dal territorio, sono stati in grado di partire, aiutare, avvisare, consigliare. “Non fatevi militarizzare”, e in parte ci sono riusciti.
Vi risparmio gli aneddoti e i dettagli a prova di queste narrazioni pubbliche che si servivano ottimamente del paradigma “aquilani piagnoni, ingrati o oscurantisti” perché oggi parlo di lutto. E se ci parliamo e leggiamo reciprocamente, lo sapete già.
Ma la premessa sulle narrazioni deviate è essenziale per spiegare la profonda differenza nel sentire il lutto e la perdita tra chi questi terremoti li ha vissuti in diretta e chi li ha inevitabilmente vissuti in differita.
In diretta non lo vivono solo le persone che sentono le scosse e vedono aprirsi le crepe nelle pareti di casa e la polvere sollevarsi (“quando siamo usciti di corsa abbiamo visto tanta nebbia, poi solo dopo abbiamo capito che era la polvere dei crolli”). Lo vivono a distanza anche quelli che appartengono ai luoghi del terremoto ma sono lontani, e la vivono forse in maniera per altri versi ancora più lacerante, perché non mitigata dal cervello rettile di chi sta ballando e pensa solo a come sopravvivere – la natura, ah, la natura come funziona bene con suo meccanismo fight or flight, peccato che su Internet non funziona e la razionalizzazione ti ammazza.
In differita non la vivono solo le persone che non sentono le scosse: in queste scosse distruttive mezzo centr’Italia e oltre ha ballato, chiedendosi, se era così forte, dove esattamente fosse l’ epicentro. Ed è tipicamente a questo punto che il sito dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia si impalla per le troppe visite e la gente è costretta a scrivere su facevo: l’avete sentita? dov’era? mamma mia che botta, l’ abbiamo sentita anche qui e qui, amici di X, come state? e per fortuna Markuccio nostro, a differenza di chi si occupa dei siti di INGV e protezione civile, che stanno lì ma non servono nel momento del bisogno, Facebook, dicevo, nel frattempo ha attivato la funzione di far sapere ai tuoi amici che stai bene se per caso ti localizza in zone di disastri, attentati e sfighe varie che potrebbero impensierire chi non ti sente. E diciamocelo, che nella situazione di panico, linee telefoniche interrotte, qualche anima santa che pensa a ricordarti di mandare sms per dire che stai bene e non fare troppe telefonate per non intasare le linee che servono per i soccorsi e ti si scarica la batteria se non sei scappato col caricatore appresso, ecco, questa funzione di Facebook è la cosa migliore che ci si potesse inventare.
Facebook ormai è la mia finestra sul mondo e dal terremoto dell’Aquila e a parte quello di Amatrice, che c’ero ma dormivo (“stanotte mi sono svegliato per la scossa e il mio primo pensiero è stato: ma è il terremoto, il secondo: vabbè, chissenefrega, siamo in un MAP, e mi sono rimesso a dormire”) tutto il panico di amici e vicini che invece rivivevano nella carne e nel cervello rettile quello che gli era successo dai quei maledetti secondi alle 3.32 del 6 aprile del 2009 all’Aquila, e che al fatto che da allora sono sfollati nei Moduli Abitativi Provvisori o MAP, che per definizione sono antisismici il cervello rettile se ne fregava, lo poteva fare solo chi non c’ era stato, io come stanno quelli che ballano lo so da quello schermo col pollicione.
E quindi è su Facebook che l’ altra sera ho saputo che c’erano scosse (diciamo che lo so da anni da Facebook che ci sono scosse, proprio perché ho troppi amici e conoscenti che vivono in zone sismiche e vuoi o non vuoi, dopo che sopravvivi a un terremoto distruttivo diventi un po’ un sismografo vivente, avverti pure le scossette tra i 2 e i 3 gradi, quelli che in teoria vengono registrate solo dagli strumenti).
E meno male che gli aquilani sono capaci di riderci sopra.
E mi sono risentita da vicino tutto il dubbio lacerante di chi a sera inoltrata, col tempo da tregenda, la pioggia e il cervello rettile che ti insulta, si chiede: esco, non esco, vado a dormire in macchina, ma mio marito si rifiuta, che faccio? Sono a casa sola con i bambini e mi sono infilata sotto il tavolo.
E lì siamo partiti con il senno di poi, confortando, distraendo, riesumando e ripubblicando le nostre liste messe insieme dopo il sisma, i nostri patetici consigli su cosa fare in caso di sisma, sperando che questa volta qualcuno li leggesse prima.
“Qualunque cosa, tieni telefono, computer e tablet sotto carica e lasciaci sempre il caricatore attaccato. Se succede qualcosa hai la batteria piena”
“Preparati una borsina di emergenza, metti qualche bottiglia d’acqua e coperte in macchina e parcheggiala lontana dai cornicioni”
“Preparati una cartellina con i contratti importanti, qualche bolletta recente pagata e la dichiarazione dei redditi, un mio amico ha dovuto ripagare le tasse perché le ricevute stavano sotto tre piani di macerie. Non ti servirà, ma fallo per scaramanzia, e mettici il decodificatore di Sky, che almeno ti distrai”
Ecco, quei momenti lì delle paure, delle preoccupazioni, dei dubbi su cosa fare (e non cercate le risposte sul sito della Protezione Civile che non ha di default in homepage una sezione dedicata ai numeri di emergenza e a cosa fare, ma solo le solite robe istituzionali e autoincensatorie, e che ora che mette un aggiornamento i giornalisti già hanno fatto le foto ai piatti abbandonati a metà della cena per far capire al pubblico bue a casa come ci si sente quando scappi da un terremoto, bravi davvero) ti attacchi a Internet.
E poi c’è il dopo. Il dopo in cui si contano i morti, si fanno le classifiche, si postano le foto ad effetto, l’orsacchiotto nella polvere, la buca nella strada, il cornicione in bilico, la tamponatura squarciata con gli spaccati di vita quotidiana immobilizzati lì per sempre, la barella col lenzuolo sopra. C’è qualcosa di confortante, per alcuni, in questo conto delle vittime: dai, ne sono di meno che a X, dai, la ricostruzione a norma dopo il terremoto precedente ha funzionato, dai, le strutture di emergenza rimaste in zona dopo il terremoto dell’Aquila si stanno rivelando utili, dai, la maggior consapevolezza fa partire interventi utili e mirati, chiudiamo le scuole, facciamo i sopralluoghi, evacuiamo gli edifici pubblici, apriamo i punti di raccolta, sindaco perché non mettete una tensostruttura per gli anziani che hanno paura a dormire in casa ma in macchina non li puoi far stare?
E dopo, dopo in questo caso, si tira un sospiro di sollievo perché il terremoto in fondo non ha fatto vittime. E allora basta, passiamo ad altro, la ricreazione è finita, troviamoci altre notizie urgenti.
E questo lascia un vuoto enorme, una mancanza di sensibilità nei confronti, non tanto dei terremotati in diretta, che quelli sono sfollati e stanno quantificando i danni e spolverando le macerie e sono perfettamente riconoscibili come vittime, non se li filano più i media, ma le istituzioni almeno si, ma di quelli in differita.
Come se la lacerazione di veder sparire i luoghi del tuo passato e del tuo futuro, quando il presente lo stai vivendo a distanza, non contasse. Non ci sono morti, andiamo avanti con l’ ordine del giorno. E noi, noi terremotati a distanza, dobbiamo fingere di andare avanti, che ci importi ancora qualcosa di tutto quel quotidiano che fino a un momento prima rappresentava la nostra vita normale e il naturale punto di congiunzione tra il passato a il futuro altrove, lì, in quei posti e quei paesaggi dell’anima, prima che fisici, noi vorremmo correre lì e contare e vedere, e parlare e fare, e siamo inchiodati a una quotidianità maledettamente normale, circondati da gente che non ha idea, che non sa come ci sta facendo male con la loro ottusa indifferenza alla voragine sul cui orlo ci ritroviamo a camminare, che non ci capisce.
E a quel punto o ci inventiamo qualcosa o ci giochiamo un pezzetto di futuro, proprio qui ed ora. Meno male che abbiamo Facebook su cui ritrovarci e sfogarci. Ma il quotidiano, signora mia, il cervello rettile capisce solo il quotidiano. e se non puoi correre fin lì, puoi solo lottare. Cerca solo di non farlo contro te stesso, e prova, se ci riesci, a non farti troppo male.
(Non se ne esce, non subito, ma il tempo è galantuomo, anche quando la tua vita da quel momento la puoi solo dividere tra un “prima del terremoto” e un “dopo il terremoto”).