Il quindicenne una mattina si sveglia
con le sopracciglia di sua madre.
Cioè, è sua madre che lo guarda negli ultimi fili di sonno aggrovigliati
come lo guarda peraltro tutte le mattine
da quando è nato, per capire
se è lì, se respira, se è vivo, se è ancora suo,
e di botto tra fronte e ciglia e capelli unticci
scopre delle linee più scura, grosse,
che si mangiano un po’ quella fronte di bambino biondo,
il perfetto bimbo ariano delle pubblicità, che era fino all’altroieri
e che adesso ha un nasone.
(Perché ieri per caso non era lei a svegliarlo.
E si è persa tutto.)
“Ma hai visto le sue sopracciglia? Sono cresciute anche loro”
perché questa è l’età in cui cambiano dal mattino al pomeriggio
in quelle ore di vita autonoma e ritrovato spazio in testa
in cui la madre riesce a riprendersi e per qualche ora non si vede madre perché sa
che sono grandi e possono rientrare e scaldarsi un piatto di minestra,
persino fare la spesa e avviare una cena
e la madre questo momento se lo sognava la notte, tra una poppata e l’altra
in cui si chiedeva se
il suo corpo sarebbe mai stato di nuovo suo
e la vita la sua
e il tempo il suo,
e si diceva che no, che ormai era fatta,
e il suo corpo, il suo tempo, la sua vita, la sua testa,
che tutto ormai era ampliato, amplificato, 2.0
che non si poteva tornare più indietro, solo andare avanti
tra minestrine, orari di scuola, pediatra, notti condivise
con altri corpi, altre teste, i sogni che si mischiano tra loro, con il respiro
(che, diciamocelo, quel respiro di angeli adesso sa di tigre che ha mangiato la bruschetta a cena).
Perché sono tutte fasi, le dicono e lo dice.
Iniziano, vanno avanti, diventano qualcos’altro.
I compiti urlandosi addosso.
I baci del mattino, della sera, del pomeriggio.
I no che aiutano a crescere.
(I vaffanculo pure).
La mano che ti prendono per strada, senza pensarci, perché sanno che sei lì,come quando erano piccolipiccoli.
I weekend con grovigli di braccia, gambe, cuscini, capelli, vita, cartacce e controller di quindicenni nel soggiorno, o nei soggiorni altrui (e l’occasionale orsetto nello zaino, che siamo grandi e ci ridiamo sopra e possiamo permettercelo allora)
Il tè a letto quando stai male (e non l’hai neanche chiesto).
Le scarpe dello stesso numero per una breve stagione
Ti rubano i pantaloni della tuta
E le mutande al padre
E i calzini ormai di tutti in un unico cassetto
Dopo il tempo, la testa, il corpo, i pensieri, si prendono i vestiti.
E tu che l’hai già visto succedere tanti anni fa,
sai che è nel corso delle cose,
con qualche soprassalto:
la voce estranea che risponde al suo numero che stai quasi per dargli del lei,
e ti fermi in tempo (ma strano ti fa strano, non c’è scampo).
E adesso queste sopracciglia estranee, di cui chiedi anche al padre che magari sei tu.
“E vero”. E tace.
“Sono identiche alle tue”.
E lì capisci che non c’è scampo, per nessuno, che Mendel lo aveva già detto,
e anche quella signora sconosciuta che disse a tua madre:
“Ma sa che sua figlia mi ricorda tanto il mio vecchio ispettore scolastico.”
Per forza, era lo zio di tua nonna l’ispettore.
È che da piccoli siamo tutti i bimbi delle pubblicità.
E poi un po’ alla volta diventiamo come i prozii, le stesse facce di famiglia, i nasoni, a volte i baffi.
E (questo non stava nel manuale) si comincia dalle sopracciglia.
Quanta poesia e amore in questo post.
Eh già.
Qualche settimana fa mi hanno detto:
“Non hai bisogno di presentarmi i tuoi figli; diceva la mamma, il buon Dio ha fatto uno stampino per ogni famiglia”.
Al manuale si possono sempre aggiungere appendici 😉
Infine: complimenti per il ritmo, il metro, la musicalità del racconto.
eh, ogni tanto mi tornano i piezz’ e core come una volta quando i figli erano piccoli