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I tronchetti ce li avete presenti, no, quelle scarpe orripil diversamente guardabili, in genere con un tacchetto, che arrivano fino al giro-caviglia e lì si arrendono al proprio destino? Considerato che il minimo di tacco nelle scarpe femminili in genere punta all’ottenimento dell’effetto coscialunga, e non chiedetemene il perché, una giustamente si chiede: perché interrompere alla caviglia? Per i pantaloni lo capisco, coprono il piede, ma non hai il problema, come per gli stivali, di infilarcelo sotto, che provateci voi a mettere un qualsiasi stivale sotto un pantalone, non dico skinny, ma anche regular leg, e poi mi direte.

Insomma, i tronchetti non sono nè carne nè pesce, eppure, fateci caso, se ne vedono sempre di più in giro. Che poi una dice: con tacco 12, un suo senso, anche estetico se anche non ortopedico, ce l’avrebbero. Ma il grosso che si vede in giro è il tronchetto pratico: monocolore, in genere nero, tacco dai 5-8 cm., bello largo che poggia bene e non fa barcollare, ti allunga visivamente senza rischiare il passaggio in ortopedia, sfida i sampietrini bagnati di questa e altre stagioni ma santo cielo quanto è inguardabile. Ma proprio.  Però se lo mettono tutte, in genere con la gonna lunghezza ginocchio e una si chiede quand’è che l’Ikea ha smesso di fare gli specchi a tutta figura.

Ora già che uno dice gonnalginocchio e tacco 5-8 cm. vediamo delinearsi un profilo socioculturale della femmina nel pieno della vita, anche lavorativa se vogliamo, che corre sì tutto il santo giorno con la Nimbus 2000 che la spinge in avanti per la sua strada premendo sul coccige, ma senza rinunciare al tocco femminile, che i pantaloni, fosse pure col tacchetto sotto, diciamocelo pure signora mia, quell’effetto non lo faranno mai. E d’altronde se corri tutto il giorno va bene l’altezza mezza bellezza, ma a un minimo di comodità non vorremo rinunciare? Enter tronchetto.

Eppure.

Eppure secondo me il gusto per il tronchetto pratico, pur nella sua praticità, va cercato altrove, e per altrove intendo le mutande. Fatemi fare un passo indietro.

Quando ero piccola il peggior insulto a una femmina, che bisogna cominciare subito a insegnargli qual’è il suo posto nel mondo, era: “ti si vedono le mutande”. (A me di solito veniva da piangere a quel punto, proprio per la misura dell’insulto. Maddai, le mutande. E così gli menavo, almeno imparava anche lui il suo, di posto, vedi il patriarcato e i suoi condizionamenti come ti ingabbia subito).

Femmine meno manesche e più dialogiche di me, a quel punto rispondevano: “embè? almeno si vede che le porto” e io le guardavo con somma ammirazione, perché a me una risposta così azzeccata non sarebbe mai venuta in mente.

Perché questo excursus storico-culturale? Perché io vorrei che qualcuno mi spiegasse quand’è che c’è stato il ribaltone e la società ha iniziato a chiederci, le mutande proprio di non farle vedere.  A meno che non fossero scomodissime, tipo il filino infrachiappa che quando spunta dal girovita un suo perché erotizzante pare ce l’abbia. Enter perizoma.

E diciamocelo pure, che anche questo è colpa del patriarcato: vuoi uscire di casa, vuoi lavorare, vuoi correre? O ti imbruttisci, così possiamo darti della culona inchiavabile quando ti dimostri meglio di noi, o devi essere guardabile, correre e farlo da scomoda. O, come si diceva di Ginger Rogers, all’ indietro e con i tacchi a spillo. Ginger faceva tutto, ma proprio tutto quello che faceva Fred, ma all’ indietro, con i tacchi a spillo e la gonna svolazzante. E tutti a dire, ma Fred, signora mia, quanto era acrobatico.

Ma si diceva delle mutande. Cioè, lo stigma sociale proprio, che dionelibberi porti i pantaloni e sotto, all’inizio delle gambe, si vede l’elastico. “Embè? almeno si vede che le mutande le porto” volevo rispondere io, che ormai, repetita juvant, le cose utili nella vita si imparano per imitazione nella prima infanzia. Ma no, pare non si possa. E pure l’infrachiappa, raccomandano le gure di stile, sotto la gonna bianca va messo color carne, o si vede lo stacco di colore (io a questo punto non dico più niente).

Ora va tutto bene, l’etica, l’estetica, la politica delle mutande fotoscioppate della ministra che firma, ma il mondo lo mandano avanti quelle legioni di femmine non sono più né giovanissime (che da giovanissima fai quello che ti pare, sei stupenda lo stesso e devi comunque sperimentare) né quelle che dello sguardo maschile fanno già a meno (sinceramente, abbiamo già dato, e la mia vita ormai la sto impostando in base al tempo che mi resta e figuriamoci se sto a pensare a quelli che mi vedono le mutande, da sopra, da sotto o pe n’ attravezze, come diceva mio padre – che però non lo diceva delle mutande, vivaddio).

Il mondo lo mandano avanti quelle che alte, basse, coscialunga o meno, corrono tutto il giorno con la Nimbus sul coccige che preme. Che correre gli tocca, ma una gonnelletta, un tacchetto financo comodo le fa correre più felici. E in tutto questo correre, la nimbus, il tacco e le esigenze della società magari sono arrivate alla conclusione che correre con i fili tra le chiappe o il pensiero dell’elastico che si vede, anche no, grazie. Enter legging.

Aha, e qui vi volevo, il legging. L’invenzione salvifica delle femmine che eccetera. Perché diciamocelo, oltre che alle mutande, è sempre la società che ce lo chiede, la stagione, il clima, le convenzioni, i calli e i piedi che sudano vorrebbero che ci si infilasse un collant, un reggicalze, una autoreggente. Ma diciamocelo serenamente, quella è roba scomoda pure lei. Se sei coscialunga il collant ti cala sul cavallo e così le cuciture, passo dopo passo, ti tagliano l’ interno coscia; se brevicoscia, ti si fanno le pieghe alle caviglie; il reggicalze, soprattutto se non sei scheletrica, ha un sacco di elastici e robe che tirano, schiacciano, si infilano nelle pieghe ecc. Se l’interno cosce a una certa età scopre la legge di gravità, ti accorgi che girare in estate senza calze sotto la gonna manco è questa comodità assoluta. Scusate se mi ripeto, enter legging.

Il legging non ha il piede, il che è un bene, non ti tira sul cavallo. Non ha il piede, il che è un male, perché o ti metti i sandali o il calzino ti tocca, soprattutto in stagione da calzino.

Il calzino è un bene, sistema il problema calli e sudore nelle scarpe chiuse, ma esteticamente è un male, perché, no guardate, vedete di immaginarvelo da soli il perché. Però è comodo il legging, accidenti. È in cotone. Opaco. Risolve eventualmente la questione “estetista, ma da quanto non ci vediamo?”, che pure quello, ce lo chiede l’Europa di depilarci regolarmente. E se una ha il moto di fede di fare il passo successivo, ha risolto pure la questione mutande che si vedono. Puoi metterti la gonna stretta, che le cuciture ce le ha sovrapposte a quelle del legging, e sei a posto. In estate, con l’interno cosce sudaticcio che fa attrito, un legging, anche corto, sotto il vestitino estivo, e hai risolto. Etica, estetica, mutanda e senso comune del pudore.

E allora vai di legging. Con calzino. Lo stivale sopra, che fa coscialunga pure lui. Oppure il tronchetto. Il tronchetto è perfetto, per coprire la cesura legging-calzino alla caviglia.

E fu così che le donne che mandano avanti la nazione correndo tutto il santo giorno, adottarono il tronchetto en masse, nonostante sia oggettivamente inguardabile con le gonne. Ma che ci frega dell’estetica se poi risolvi tutta un’altra serie di questioni politiche, sociali, lavorative ed estetiche? Tutto non si può avere. Piove, governo ladro, sennò sotto al legging mi mettevo le Birke e tanti saluti a tutti, pure ai calli.

E adesso scusate ma devo scappare, la Nimbus scalpita.

 

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