Le due madri siedono all’ aperto una di fronte all’ altra separate da un tavolo e dallo sbuffo occasionale della sigaretta. Si conoscono da due giorni, una è l’interprete. Guardano di lato, vari lati tra tutte e due, e poi quando riescono a rimettersi una parvenza di saracinesca in faccia, si guardano. Tra loro, la seconda opinione, o diagnosi, o sentenza, che l’altra ha tradotto all’una poco fa.

Una ha appena parlato al telefono con il fronte casa, ha risposto con la voce vivace di sempre con cui veste la saracinesca, con cui risponde al telefono, con cui parla al suo bambino che le sta in collo come un paguro aggrappato alla conchiglia, con cui lo distraeva mentre lo spogliava e lo vestiva mentre lui protestava piangendo disperato, perché a neanche quattro anni e in pochi mesi veramente ha già avuto la sua dose di medici, analisi, tamponi, risonanze, pizzichi. Vivace come quando gli sminuzza pezzo pezzo il mangiare che ancora riesce ad ingoiare da solo, ma solo se sminuzzato. Lasagna, pastina, biscotti al cioccolato, briciola per briciola tutto viene sminuzzato, imboccato e mandato giù. Bravo!

Ogni tanto ride, il bambino, quando vede a tavola una cosa che gli piace o lo incuriosisce e in quella risata c’è tutto quello che rimane e che rimbalza sulla madre e sulla sua voce vivace e le nutre entrambe.

L’altra sta sul limine: vicina e attenta a non calpestare un confine delicatissimo che sa che c’è, ma non sa bene dove. Un confine che va rispettato come la cosa sacra che è. E guarda a volte dentro di sé lo specchio di quel confine per ora potenziale, e se ne allontana spaventata. Per questo vede quando la saracinesca si alza ed è grata perché non è la sua, grata perché  il suo confine è ancora intatto, grata perché sa che all’altra dei confini non importa ormai più niente, ci possono passare sopra anche i carrarmati, non se ne accorgerebbe, perché è già al di là di tutto, tranne quel bambino che la aspetta dentro aggrappato al collo della nonna e quello che verrà. Che lei sa, conosce, ha studiato, ha analizzato e non accetterà mai con tutto il respiro che le rimane.

Finisce la sigaretta.

“Rientriamo, fa freddo”.

Il mio mestiere è un esercizio di gratitudine e di controllo dei confini. Non ci riesco sempre.

6 comments

  1. eh, io questo tipo di gratitudine, se ho capito di cosa si tratta, proprio non riesco a provarlo. consapevole delle fortune che ho, si, ma grata significherebbe riconoscere che qualcuno ha scelto (me, l’altra), e non lo accetto.

    1. Non so ancora bene come lo intendevo, c’ è molto del mio cattivo carattere dentro, diciamo grata che ho conosciuto due persone eccezionali, che sono due lottatori, e che mi è stato permesso di tenerli per mano per un piccolo tratto di strada che avrei preferito non facessero, ma dovendo farlo, meglio non farlo da soli. Diciamo che sono stata grata per l’ opportunità di mettermi al servizio, perché con questo mi sono comprata un piccolo bonus di servizio altrui il giorno che servirà a me. Come ho detto, è un groviglio confuso che mi sono scritta di dosso per capire.

  2. Io invece, quando incappo in questo genere di situazione, sono proprio grata. Grata di aver scampato il pericolo, non che invece sia toccato a qualcun altro. Grata come quando, girando per Genova, un calcinaccio ci ha sfiorati senza colpirci. Luca era il più vicino, sarebbe potuto finire al pronto soccorso con la testa rotta, e invece grazie a non so cosa (la fortuna, gli dei, le anime degli antenati, non lo so) la giornata si è conclusa in serenità. O grata come quando, l’anno scorso, la mia auto si è schiantata ma io no.
    Con tutto il fatto che è meglio la mia eventuale testa rotta che una qualsiasi malattia seria a uno dei miei figli.

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