Una delle cose che ho imparato prima ancora di studiare interculturalità, body-language, pragmatica e gli infiniti modi in cui il quotidiano si declina in modi determinati culturalmente è stato come il modo di guardare differisca da un paese all’ altro.
Non aiuta che io sia una persona disperatamente timida e che da sempre mi succede spesso di non saper bene dove guardare. Poi sono distratta e delle volte mi incanto con lo sguardo nel vuoto e se qualcuno si trova sulla traiettoria pensa a male mentre io manco lo vedo. E sono cecata, quindi cosa vuoi che veda a distanza? Per fortuna che quando uno è giovane dove non arrivano le diottrie, l’abilità nelle tecniche sociali o la consapevolezza culturale, arriva l’ormone.
E così nei miei primi giorni disperati e solitari a Groningen, che non conoscevo nessuno, non sapevo dove andare a sbattere e mi toccava cavarmela da sola, il mio grande conforto erano quel paio di italiani con cui condividevo casa, poi uno dice che gli stranieri non si integrano perché stanno sempre tra di loro, è che certe volte è proprio una questione di sopravvivenza e igiene mentale.
Che poi gli studenti olandesi si erano organizzati, eh. Avevano creato i mentor group. Che vuol dire che quegli studenti olandesi che ci tenevano all’ internazionalizzazione e ad avere occasione di far pratica con l’inglese, si offrivano volontari per “adottare”, passatemi il termine, uno studente straniero per aiutarli a inserirsi nella vita studentesca olandese, facendogli da mentore. Questo avveniva tramite i cosiddetti mentor group, cioè un gruppetto di tipo 4 mentori organizzava una qualche attività con i loro 4 affidati, ci si conosceva, si chiacchierava e si socializzava.
Il tutto ben una volta al mese, che gli olandesi sono strapieni di cose da fare, ma sanno organizzarsi e una volta che se lo sono scritti in agenda, non si devia. Cioè, una volta al mese per evitare che mi suicidassi nel canale per la solitudine. La morte, praticamente, ma quando stai messa così meglio di niente (infatti le prime due settimane mi sono iscritta a un corso per clown organizzato dall’Istituto francese, uscendone definita le clown qui se méfie, ovvero che diffida, e mai definizione fu più azzeccata, visto che ero terrorizzata dal gran passo di partire per un posto di cui non sapevo niente).
Comunque tutti pieni di buona volontà e di voglia di integrazione si andava alle attività, poi per fortuna alla fine ci si rilassava e si finiva in birreria, che per un’astemia come me non era l’ideale, la bottiglietta di minerale costava (e costa tuttora) più di una birra e alla fine quante robe gassate puoi bere in una sera tenendoti il rutto? Eh, signora mia, la socializzazione, che fatica.
Lo sguardo da flirt
Comunque i mentor erano simpatici, io tentavo di essere meno timida, che poi io sono del timido logorroico, che quando non conosco nessuno mi rintanerei con una coperta in testa, ma datemi un po’ di spago e parto con i pipponi. Insomma, il mio mentor che era tanto caruccio e simpatico, come dire, a un certo dubbio mi venne il dubbio che mi stesse facendo il filo. Però noi timidi e insicuri non osiamo mai pensare di poter interessare a qualcuno e il maschio olandese comunque è talmente discreto, che boh.
Però ecco, in birreria a un certo punto ho avuto l’impressione fortissima che pure il suo amico, l’altro mentor, mi stesse facendo il filo e io già non ero abituata a uno che forse, eventualmente chissà, ma due poi. Il quale numero due alla fine mi accompagnò a casa in bicicletta e ipso facto, sulla porta, si invitò uno dei prossimi giorni a passare da me per un caffè, e dio sa se nella mia vita studentesca precedente casa mia non fosse una via di mezzo tra la mensa del popolo e il rifugio delle guide, ma intanto dagli olandesi non me l’aspettavo e poi la mia prima reazione fu anche: “ma quanto sei stronzo, è evidente che piaccio al tuo amico e ci stai pure a provare?”, che timida e insicura si, ma un’etica della monogamia ce l’avevo ben inculcata.
Perché ecco, due maschi che passano la serata a fissarti profondamente negli occhioni senza battere ciglio un secondo manco fossi l’apparizione della madonna di Lourdes e loro i pastorelli, capite che già timida, e pure atea, ci stavamo divertendo, ma proprio a mio agio e serena non ero, ecco. Cioè ma proprio non mi era mai capitato.
E insomma, meno male che nella mia casa dello studente internazionale si condivideva con 54 persone una cucina gigantesca dove a qualsiasi ora del giorno e della notte ci trovava conforto, e io lo trovai nella forma di Francesca, l’altra studentessa italiana, che santa donna, simpatica e meno timida, insicura e monogama della sottoscritta, era la persona che mi ci voleva in quel momento.
E giungemmo entrambe alla constatazione che da quando eravamo in Olanda era come se di botto ci fossimo trasformate in Mata Hari, cosa che poi ognuna si viveva a modo suo, ma insomma, quella era la sensazione.
“Ma sai cos’è secondo me?”, fece Francesca “È che noi continuiamo a comportarci a modo nostro, chiacchieriamo, interagiamo, tocchiamo la gente”. Questi sono nordici, non si toccano, non si guardano, si ignorano per buona educazione, intragiscono da due metri di distanza, per forza che arriviamo noi, parliamo a voce alta, facciamo casino e gli scombussoliamo il sistema. Ci sono due da noi in laboratorio, si sposano fra due settimane, sembrano due estranei, ognuno per conto suo e non si cagano mai, se questo è il loro standard”.
“Cioè”, feci orripilata, “tu dici che pensano che ci stiamo provando?”
Eh, si, povere stelle, loro proprio quello pensavano, come mi confermò maschio alfa diversi mesi dopo che avevo concluso che io in fondo lui, per com’ era, me lo potevo pure sposare.
‘Ti ricordi quella sera che ci siamo conosciuti? Io pensavo che tu mi volessi proprio”, fece lui.
“Io? Ma se ero convinta che fossi un tossico”.
Poi uno dice l’ amore.
Insomma, io vi avverto, andateci piano col vostro body-language naturale che poi rischiate di accasarvi e riprodurvi con uno che al primo sguardo vi era sembrato un tossico e dopo 24 anni state ancora insieme.
Comportamenti acquisiti e il senso di intimità
Comunque bene o male si cresce, ci si adatta al paese in cui ti ritrovi e tutta una serie di comportamenti che di tuo non avevi innati, con gli anni, che tu te ne accorga o meno, li acquisisci. E proprio su questo tema, nature or nurture, grazie al colloquio del nido di Orso ebbi un’epifania.
Diciamo che al nido già con Ennio due anni prima mi ero scontrata col discorso della socializzazione all’italiana VS socializzazione all’olandese. Premessa: il primo nido di Ennio era un parcheggio terrificante, ma era l’unico che avessimo trovato mentre eravamo in lista d’ attesa, lontano da casa e con le maestre che fumavano in giardino e ignoravano i bambini, ma pieno di bambini turchi, marocchini e del Suriname, con una socializzazione molto fisica. Una mattina che ero incinta, stanca, e lui aveva quasi due anni e mi si aggrappava disperato, mi sedetti a terra per tenerlo in braccio più comodamente, e subito alcune bimbe più grandi vennero ad accarezzarlo, una trascinò un gioco interessantissimo lì vicino, in mezzo secondo non piangeva più e stava esplorando il gioco mentre una bimbina ancora più piccola di lui mi si avvicinò gattonando e prese il suo posto in braccio a me, visto che ero il giocattolo nuovo della mattinata.
Appena possibile lo trasferimmo al nido sottocasa, comodo da raggiungere, con il piano pedagogico e i colloqui e le osservazioni in classe e le esercitazioni antincendio. Anche una classe piena di maschi ariani olandesi del tipo taciturno e introverso. e di maestre che siccome le osservazioni in classe le facevano con in mano la check-list raccomandata dalle ASL, si erano convinte che il povero Ennio, poco bilingue e molto italiano, avesse un serio ritardo linguistico e forse dell’altro, visto che gli deviava clamorosamente dalla lista. Una fatica a convincerle che no, stava bene e che il bilinguismo non era una cosa brutta.
Poi arrivò Orso, anche lui maschio taciturno che sapeva badare a se stesso, molto più del fratello, ma che a due anni e mezzo si ritrovò ad essere il maggiore in un gruppo di bambine quasi sue coetanee e un paio di neonati. E le bimbe lo adoravano e quando arrivavamo la mattina lo vedevano da dietro il vetro e iniziavano a saltellare e chiamarlo con le loro vocine angeliche e acutissime con gli ultrasuoni “Orso, Orso, Orso” e lui si nascondeva con la faccia contro il mio cappotto, le mani sulle orecchie e urlava: “Mi fanno male le orecchieeee”.
Insomma, al colloquio dopo tutta la parte motricità, socializzazione, acquisizione del linguaggio, che lui per fortuna da bravo secondogenito e grazie alle amichette parlava già più olandese del fratello alla sua età, mi sento dire:
“Ah, si, e poi c’ è un punto che abbiamo notato tutti e ci dà un po’ pensiero, Orso non fa contatto visivo quando gli parli”.
E voi state state pensando all’autismo, ci risiamo pensai io.
“Si, lo sappiamo anche noi, e questa cosa se ricordi ce la siamo già detta due anni fa sul fratello, e credevo l’avessimo risolta allora. Comunque i miei figli sono bilingue e fortemente socializzati da italiani perché tra colleghi, stagisti e corsisti, viviamo sopra la scuola di lingue e siamo pieni di italiani che ci girano per casa. Io poi sono del sud e da noi guardare fisso in faccia le persone come si usa qui è considerato, specie per un bambino, sfacciato. A te sembra che io abbia un modo innaturale di guardare le persone?”
“No, direi di no”.
“Ecco, perché l’ho imparato da adulta, ma di mio e spontaneamente io guarderei molto di meno e per me quindi non è un atteggiamento spontaneo. Comunque direi che Orso non dovrebbe essere molto diverso da altri ragazzini di origine mediterranea, non ne avete di bambini marocchini che magari fanno come lui?”
No, non ne avevano perché eravamo nel quartiere ariano e fighetto.
“Insomma, quello che voglio dire è che per lui quello di non guardare abbastanza gli altri negli occhi un po’ è timidezza e un po’ è un comportamento acquisito da me, non è innato, non ha tratti autistici o sua nonna che è pediatra avrebbe già dato l’allarme. Possiamo stare sereni”.
Però mentre dicevo tutto questo ebbi un’ epifania: per me quindi non è un atteggiamento spontaneo. Cazzarola, mi dissi, ecco perché in tanti anni di Olanda io ancora non riesco a farmi un’amica del cuore olandese. Perché per potermi comportare in un modo che a loro sembri naturale, per me devo fare lo sforzo di comportarmi in maniera innaturale. E se non riesco ad essere spontanea a modo mio, come faccio ad avere intimità?
Insomma, mi bastò all’epoca capire questa cosa e pochi mesi dopo il livello di intimità con alcune altre madri dell’asilo con cui stavo nell’associazione genitori raggiunse livelli che nei 10 anni precedenti non ero riuscita ad avere. Con una sicuramente siamo ancora amiche e ci raccontiamo tutto. Basta poco delle volte.
La ricetta dell’integrazione tramite sguardo
Non ce l’ho. Vedete, come la storia del millepiedi, se chiedete a un millepiedi quando cammina quali piedi mette giù prima e quali dopo, il poveretto si blocca e quello che prima gli veniva spontaneamente non solo non lo sa spiegare, ma rischia di incartarsi ed inciampare. Io dopo tanti anni devo aver assimilato come si guardano gli olandesi tra loro nelle normali relazioni di commercio sociale, cioè senza farsi il filo, che sarebbe una seccatura alla mia età. Ma spiegarlo a qualcun altro è proprio impossibile.
Però ho imparato che già solo essere consapevoli della differenza aiuta a studiare meglio l’ ambiente circostante ed adattarsi al proprio interlocutore, chiunque esso sia.
Perché chi studia seriamente il body-language sa che oltre alle preferenze individuali, sui grandi numeri, ci sono dei comportamenti culturalmente determinati, e li filmano e poi li riguardano al rallentatore e misurano le pause e le lunghezze, e sanno che si parla di millisecondi. Intervalli di tempo che consapevolmente non possiamo determinare. Ma che evidentemente in qualche modo interiorizziamo con la pratica.
E quindi non chiedetemi di spiegare la contraddizione tra la me giovane che trovava gli sguardi lunghi imbarazzanti e la me adulta che deve spiegare che gli sguardi brevi e indiretti di mio figlio non sono un problema. La norma starà qualche millesecondo in mezzo ai due comportamenti, ma intanto ve l’ho detto, fatene quello che potete e che vi sembra utile per voi.
E se volete un piccolo esercizio utile di traduzione, provate a studiarvi in inglese la differenza tra glance e stare. Sguardi entrambi, ma il secondo decisamente fastidioso.
Anche noi all’asilo spicchiamo per italianitá, ma la cosa piace…perfortuna. Beh le maestre hanno definito Penelope “charming”…fa’ te 🙂 Poi mi accorgo che quando la vado a prendere ci abbracciamo e ci ricopriamo di baci come gli altri non fanno, le maestre peró ci guardano intenerite.
bello (come si fa il cuoricino qui sopra?)
Molto interessante, grazie!
interessante. io sono olandese con una (de?)formazione italiana. non mi piacciono gli sguardi olandesi, o perche disimparati o perche mai piaciuti per timidezza non lo so. una cosa che e’ capitata a me in Italia da olandese quando si salutava con i tre bacetti considerati qui normalissimi tra amici o persino conoscenti, in italia pensarono che stessi facendo il filo alla persona in questione. per cui lasciai perdere quell’abitudine subito (la storia non era come la tua nel senso che non poteva quella essere la persona con cui poi sarei rimasta insieme, era una vera miscomunicazione interculturale).