ferratelle-avejaMia nonna e le sue sorelle avevano la mania del Rosario. Si diceva come minimo tre volte al giorno, tutte le volte che bisognava ingannare il tempo, per esempio in viaggio o durante le attese. Sarà per questo che una volta si era meno stressati, c’era il mantra. Poi, dirlo in treno, non solo faceva passare il tempo, ma evitava che i pappagalli venissero a romperti le scatole, secondo loro, impressionati da tanta devozione.

E adesso arriva una storia di cibo carinissima. Dovete sapere che da un po’ esiste un Google group di ofenesi, cioè gente che vive a o è oriunda, come me, di Ofena. E questi del gruppo vivono tutti tra USA e Canada, ci postiamo in inglese, hanno tutti come minimo un 10 anni più di me e molti di loro sono già di seconda o terza generazione e si conoscono o sono parenti fra di loro. E tra le altre cose ci scambiamo ricette, alberi genealogici, vecchie foto ed altre nostalgie. E mi sono resa conto di come il cibo per loro simbolizzi tutta l’italianità perduta o annacquata, rappresenti l’unico italiano che a volte ancora parlano, l’affetto dei loro parenti. Un piezz’e core gastronomico.

Adesso per esempio circolano un paio di ricette delle feste, e da noi, una di queste, sono le pizzelle. Che all’Aquila, per dire, si chiamano ferratelle, altrove neole. Insomma, sono una specie di wafer fatto una volta con il ferro apposta da mettere sulla fiamma, adesso anche quello elettrico che ne fa quattro alla volta.

Invece si chiamano pizzelle e io a Ofena ho sempre il ferro da pizzelle ereditato da zia Filomena, con le sue iniziali, FS – Filomena Silvestrone. Ferro fatto a suo tempo da Nicola Lancione, il ferraro artista di Ofena che ha lasciato lavori bellissimi. Ma il ferro vintage che ho io ha una cerniera estremamente illogica, ci vogliono due mani per aprirlo e una terza per metterci la cucchiaiata di pastella sopra, quindi alla fine non lo uso quasi mai (e quando lo uso, bestemmio.)

Allora, la storia è che una volta un bis-procugino bambino mentre guardava farle chiese alla nonna di farlo provare. E lei, prima che cominciasse, gli fece dire un’Ave Maria. (Propiziatrice, ho pensato io). Ma non un’Ave Maria veloce come nel rosario, ma una detta con sentimento ed attenzione. Insomma, gliel’ha fatta ripetere un tot di volte fino a che non si è convinta che la dicesse bene.

Ed allora gli ha messo il ferro da pizzelle in mano, da tenere sopra la fiamma del camino. E finita l’Ave Maria detta con sentimento ed intenzione eccetera, quel lato lì era cotto e ha potuto girare il ferro e dirne un altra, fino a che anche l’altro lato era cotto.

Ecco, a me, quando le mie amiche mi dicono che dovrei fare yoga, o fare quei ritiri spirituali che stanno lì a dire i mantra in sanscrito, a me viene viene voglia di ridirmi un rosario. Che forse sono l’ultima della mia generazione ad averlo imparato tutto in latino bastardo di default, anche se adesso non mi ricordo bene i misteri e mi perdo.

E pensare che avevo messo in lista nozze il timer da cucina dell’Alessi che ha smesso di funzionare dopo un paio di mesi. A saperlo, che bastava un’Ave Maria. Sarà che ho sposato un ateo.

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